Predatory pricing e diritto della concorrenza
Predatory pricing e diritto della concorrenza – Prezzi predatori e abuso di posizione dominante – Predatory pricing e antitrust
di Gaetano Travia e Giovanni Adamo
Ci occupiamo oggi di predatory pricing e della sua compatibilità con il diritto antitrust e della concorrenza. Il legame tra c.d. predatory pricing e diritto della concorrenza è infatti oggetto di talune pronunce dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nelle quali viene analizzato il legame tra applicazione di prezzi predatori e abuso di posizione dominante.
Abuso di posizione dominante e prezzi predatori: un concetto da verificare in concreto
L’abuso di posizione dominante costituisce un tema centrale della disciplina giuridica in materia antitrust. Allo stesso tempo però, rappresenta un concetto a volte labile, la cui definizione risulta possibile soltanto facendo riferimento alle sue diverse manifestazioni empiriche.
Non a caso, la sottile linea che funge da discriminante tra condotta legittima e condotta abusiva viene spesso tracciata in relazione al caso concreto e quale risultante di un’attenta disamina dei profili fattuali, nonché degli scopi, che caratterizzano il contegno oggetto di valutazione.
Prima ancora di poter definire un comportamento come espressione di un abuso di posizione dominante, logicamente preordinato è l’esame circa la sussistenza dei requisiti affinché si possa affermare con certezza che vi sia un rapporto di dominanza tra due o più imprese operanti nel medesimo mercato rilevante.
Si è soliti ricercare la nozione di posizione dominante avvalendosi di una certa affinità di concetti con il cd. “potere di mercato” ed intendendola, dunque, quale capacità di un’impresa di aumentare i propri prezzi al di sopra dei livelli competitivi in maniera durevole e profittevole.
Dovendo generalizzare ancor di più la portata di tale definizione, potremmo asserire che si assiste ad un abuso di posizione dominante ogni qualvolta un’impresa adotti in modo sapiente delle misure economiche in alterazione della concorrenza, potendone sopportare essa stessa gli effetti, per poi apprezzare un consistente vantaggio economico nel breve o nel lungo termine.
Al fine di poter cogliere la differenza fra impatto a breve ed impatto a lungo termine di manovre effettuate in abuso di potere, può essere utile esemplificare attraverso due casi teorici.
Si pensi ad esempio all’applicazione da parte dell’impresa in posizione dominante di prezzi eccessivamente gravosi nei confronti di parti non concorrenti, come i clienti. Ciò costituirebbe un cd. abuso di sfruttamento, che, ove posto in essere da un’impresa che goda di una riserva legale ovvero, più semplicemente, di una maggior efficienza all’interno del mercato, apporterebbe benefici economici dati dall’improvviso incremento di marginalità dei profitti.
Diversamente, vi sono talune strategie che, pur non “premiando” l’impresa agente con un’immediata monetizzazione dei propri risvolti, garantiscono, appunto nel lungo termine, vantaggi economici altrettanto rilevanti, come, ad esempio, una diminuzione della capacità competitiva delle imprese rivali.
Predatory pricing e diritto della concorrenza: una manifestazione di abuso di posizione dominante
Vi sono addirittura casi in cui, pur di beneficiare di un simile vantaggio, l’impresa dominante è disposta a sopportare importanti perdite nei ricavi. La fattispecie che in questa sede ci interessa si riferisce proprio a simili manovre, avendo ad oggetto la disciplina dei cd. Prezzi predatori.
Il predatory pricing costituisce una tipica condotta abusiva di tipo escludente che consiste nella temporanea fissazione dei prezzi ad un livello inferiore rispetto ai propri costi marginali.
Tale strategia, se posta in essere da un’impresa che opera in posizione dominante, è da ritenersi vietata poiché si presume che, in assenza di ricavi dall’esercizio dell’attività, abbia l’unica finalità di estromettere concorrenti dal mercato concorrenziale.
Predatory pricing e diritto antitrust: i precedenti
Va da sé che la mera presunzione di predatorietà debba necessariamente trovare concreto riscontro nelle risultanze di approfonditi procedimenti istruttori. Così accadde, ad esempio nel 2002, quando l’AGCM fu chiamata a valutare il contegno commerciale tenuto dalle società Caronte Spa e Tourist Ferry Boat Spa, nell’ambito delle loro attività di traghettamento di automezzi gommati sullo stretto di Messina. Autore della segnalazione fu la diretta interessata società Diano Spa, che, nel 1998, ravvisò da parte delle concorrenti Caronte e Tourist la fissazione di prezzi “sotto costo” per la rotta Reggio Calabria – Messina. Le due società operavano congiuntamente attraverso la controllata NGI (Navigazione Generale Italiana Spa) che godeva di una posizione dominante difficilmente intaccabile, anche alla luce di barriere di tipo infrastrutturale (gli approdi) ed amministrativo (come le concessioni demaniali ed i diritti di attracco) che riducevano la contendibilità del mercato.
Il caso, tanto datato da non far più notizia, è tuttavia utile per osservare un approccio quasi cartesiano dell’Autorità nel delineare i criteri di valutazione del fenomeno di predatory pricing. Nello specifico, il Garante fece riferimento alla teoria economica sui costi incrementali, secondo la quale, “affinché una politica di prezzo possa essere considerata predatoria è necessario che siano soddisfatte le condizioni previste dal seguente test:
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se il prezzo è inferiore al costo incrementale medio di breve periodo deve essere considerato di natura predatoria;
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se il prezzo è superiore al costo incrementale medio di lungo periodo non può essere considerato di per sé predatorio;
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se il prezzo è compreso tra i due costi, la valutazione dell’eventuale comportamento predatorio necessita di ulteriori elementi e dell’esame del contesto competitivo in cui esso si inserisce”.1
È evidente che l’accertamento del predatory pricing è il culmine eventuale di un percorso investigativo spesso tortuoso. Chi sostiene di essere danneggiato dall’abbassamento dei prezzi operato da una rivale non ne conosce infatti i costi marginali. La demarcazione tra lecito abbassamento dei prezzi e fissazione di un prezzo predatorio non è così agevole se si consideri, inoltre, che si tratta sostanzialmente di stabilire il confine tra meritevole capacità strategico-commerciale dell’azienda o biasimevole comportamento fraudolento, fattispecie evidentemente opposte. Può infatti capitare che l’abbassamento dei costi sia sopportabile dall’impresa dominante grazie ad economie di scala scaturenti dalla sua maggiore dimensione2.
Altra criticità riguarda l’apparente dissonanza tra abbassamento dei prezzi e vulnus per l’ordinamento. Superficialmente si potrebbe infatti ritenere che minori siano i prezzi, maggiori siano i benefici per chi acquista. È difficile percepire la portata del danno che possa conseguire ad una maggiore accessibilità di beni e servizi da parte dei consumatori. Senza dubbio, un mercato, perché funzioni, necessita di norme che ne tutelino la fisiologica concorrenza. Tuttavia il contrasto risulta stridente se si pensi che l’intero impianto normativo in materia di antitrust ha una matrice fortemente “utilitaristica”, subordinando spesso il giudizio di colpevolezza ad un’analisi circa la sussistenza di effettivo pregiudizio apportato al mercato. Si pensi, per esemplificare, all’art. 4 della legge Antitrust, rubricato “Deroghe al divieto di intese restrittive della libera concorrenza”. L’intesa restrittiva della concorrenza viene punita non in quanto tale, ma soltanto nella misura in cui questa danneggi il mercato. Di contro, un’intesa formalmente vietata, trova giustificazione da parte dell’ordinamento qualora apporti “un sostanziale beneficio per i consumatori”. Stando infatti all’art. 4 della legge Antitrust:
“L’Autorità può autorizzare, con proprio provvedimento, per un periodo limitato, intese o categorie di intese vietate ai sensi dell’articolo 2, che diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta sul mercato i quali abbiano effetti tali da comportare un sostanziale beneficio per i consumatori e che siano individuati anche tenendo conto della necessità di assicurare alle imprese la necessaria concorrenzialità sul piano internazionale e connessi in particolare con l’aumento della produzione, o con il miglioramento qualitativo della produzione stessa o della distribuzione ovvero con il progresso tecnico o tecnologico. L’autorizzazione non può comunque consentire restrizioni non strettamente necessarie al raggiungimento delle finalità di cui al presente comma né può consentire che risulti eliminata la concorrenza da una parte sostanziale del mercato”.
Come si può osservare, in materia antitrust si assiste non di rado al difficile bilanciamento tra interesse del consumatore e tutela dell’equilibro concorrenziale tra imprese, tantopiù quando si debba valutare il rapporto tra abuso di posizione dominante e prezzi predatori.
In ogni caso, il predatory pricing non costituisce un modello strategico immune da effetti collaterali per chi lo pratica. Innanzitutto, si consideri la potenziale illiceità della pratica, cui seguono solitamente, vista anche la sporadicità di simili abusi, sanzioni pecuniarie esemplari. Si veda, in tal senso, il recente caso Qualcomm, destinataria di un’ammenda di 224 milioni di euro per concorrenza sleale, comminata da parte della Commissione Europea nel 2019.
In secondo luogo, non è da sottovalutare l’aspetto prettamente economico. Una simile strategia deve necessariamente applicarsi in un lasso di tempo contingentato, e ciò poiché anche la più solida delle realtà economiche non può sopportare l’assenza di ricavi per un lasso di tempo eccessivamente prolungato. Anche qualora l’impresa riesca a far fronte ad un periodo, per così dire “in perdita”, riuscendo nel proprio intento di escludere i competitors dal mercato, dovrà presumibilmente compensare le perdite con un innalzamento dei prezzi. L’applicazione di prezzi più alti, a sua volta, pur essendo praticabile dall’impresa poiché dominante, favorisce, per definizione, l’ingresso di nuovi agenti che intravedano la possibilità di praticare prezzi più… competitivi.
Un’arma a doppio taglio il cui successo è tanto aleatorio da fornire una spiegazione in merito al suo esiguo utilizzo e, di riflesso, alla scarna disciplina giurisprudenziale formatasi negli ultimi decenni.
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1AGCM 17.04.2002, Provvedimento n. 10650, Caso A267, Diano/Tourist Ferry Boat-Caronte Shipping-Navigazione Generale Italiana.
2Cfr. P. FATTORI, M. TODINO, La disciplina della concorrenza in Italia, p. 179.